È il 17 febbraio 1977, il giorno scelto
da PCI e sindacato per dare una sferzata che lasci il segno a quel movimento di
estremisti che ha occupato la Sapienza di Roma.
Hanno deciso che il segretario della
CGIL, Luciano Lama, andrà a parlare in università. Dalle 6 del mattino tra
servizi d'ordine di FGCI, PCI e vari funzionari sono quasi in duemila; tutti in
permesso sindacale per andare a difendere il loro segretario. Bloccano le
entrate per non far passare nessuno, e cominciano a cancellare le scritte dai
muri. Lama, protetto dai poliziotti di partito, inizia a parlare da un furgone,
amplificato da un impianto a 20.000 watt. Assordante, e che non permette
replica.
Perché questa scelta? Perché gridare in
università che il movimento è composto di fascisti, e sbandierare il vessillo
"della politica dei sacrifici" nella casa del "tutto e
subito"? Diverse sono le interpretazioni. Chi del PCI ricorda
quell'evento, parla di una leggerezza politica, di un errore di analisi, di non
aver compreso che in università non c'erano piccoli gruppi autonomi, ma un
movimento che già allora avrebbe salvato ben poco dell'esperienza pcista. Ma
forse è più saggio pensare che all'interno della dirigenza si volesse
cauterizzare quella ferita che il movimento aveva aperto nella base sociale del
partito, sospingendo "quelli del '77" su posizioni radicali che ne
limitassero il contagio.
Ben prima di quel giorno si era cercato
ghettizzare, isolare e rinchiudere il movimento in università; poi di
presentare il PCI come il solo portatore reale dell'interesse di classe, e
quindi l'unico legittimato a rappresentarla; dopo la cacciata di Lama si decide
che nel movimento ci sono i buoni e gli autonomi.
La mattina del 17 febbraio, studenti e
lavoratori dei collettivi fronteggiano il servizio d'ordine di Lama. L'aria è
tesa, scandita dal coro "sa-cri-fi-ci!" degli indiani metropolitani,
che hanno issato un fantoccio del segretario della CGIL con scritto
"nessuno lama". E poi succede, anche se nessuno nell'assemblea del
giorno prima se lo sarebbe potuto aspettare.
"Ci fu uno sciocco servitore del
servizio d'ordine del PCI [...] che brandiva un estintore enorme e stupidamente
cominciò a scaricarlo sugli studenti... Quello fu il segnale per mandarli
affanculo definitivamente." (V. Miliucci in un'intervista a C. Del Bello).
Succede che Lama è costretto a correre
giù dal furgone e darsela a gambe, incalzato dall'attacco dei compagni. C'è chi
se lo ricorda sconvolto e sudato, preoccupato di venire catturato dagli
autonomi.
Il capo delle "giubbe blu",
del legittimo e regolare esercito di classe, messo in fuga dagli
"indiani", dai dissidenti, dalla classe.
Ed ero già vecchio quando vicino a Roma
a Little Big Horn,
Capelli Corti generale ci parlò
all'università,
dei fratelli "tute blu" che
seppellirono le asce.
Ma non fumammo con lui, non era venuto
in pace.
E a un dio "fatti il culo" non
credere mai.
(da Coda
di lupo - Fabrizio De Andrè)
Ore 7. Suona la sveglia. Il calendario segna giovedì
17 Febbraio 1977, l’agenda rossa del movimento, quello dei sindacati e del PCI coincidono:
identico luogo, stessa data, medesimo appuntamento. Alle ore 10 è previsto un
comizio di Luciano Lama, segretario generale della Cgil. L’università è
occupata per la protesta degli studenti contro la Riforma Malfatti. Étempo di
crisi petrolifere e sacrifici per i lavoratori, è tempo di disoccupazione
giovanile, è tempo di astensione e compromessi storici.
Ore 8.
Il cielo è grigio, pioggia
probabile. Keeway e ombrelli. Siamo nel Piazzale della Minerva, luogo e simbolo
della sapienza. Il servizio d’ordine della CGIL e del PCI sta coprendo con la
vernice alcune scritte: “Provocatori sono PCI e il sindacato che pieni di
paura…invocano lo stato”; “I Lama stanno in Tibet”. Le firme sono di “Autonomia
Operaia”, l’ala dura del movimento, e degli “Indiani Metropolitani”, l’ala
creativa e irriverente del movimento. Gli indiani osservano, hanno meditato una
contestazione ironica, goliardica in un primo momento, pronta a mutare con il
crescere della contestazione. Alcuni indiani spingono una scala da biblioteca,
di quelle con ruote, palchetto e ringhiera, sopra c’è un fantoccio in
polistirolo di Luciano Lama. Attaccati al fantoccio, tanti cuori e palloncini
con scritto “L’ama non Lama” oppure “Non Lama nessuno”. I sindacalisti ridono
bonariamente, come dei genitori verso i figli goliardici ma qualche comunista
ortodosso reputa la provocazione inammissibile.
Ore 9. Dietro il fantoccio si accalcano i movimenti
in aperta contestazione mentre il servizio d’ordine del PCI stende un cordone
che perimetra la piazza. Qualcuno intona Guantanamera: “Fatte ‘na pera, Luciano
fatte ‘na pera”. Si oltrepassa il limite, la “pera” è gergalmente riferita
all’eroina di gran moda in quegli anni, la moda distruttiva che si rivelerà
letale per la piazza e quella generazione. Fino ad ora, la contrapposizione
politica si è limitata allo scontro verbale.
Ore 10. Luciano
Lama puntuale non manca all’appello, vuole dimostrare che nonostante il compromesso
storico e i sacrifici imposti dalla crisi, i giovani e i movimenti sono con
loro, studenti e lavoratori ancora insieme come da un decennio a questa parte.
Circondato da operai in tuta blu, con passo svelto e guardingo procede verso il
palco, la strada per raggiungere il centro della piazza l’ha fatta respirando
l’aria intorno. Non mancano i fischi, gli slogan ironici e violenti, non è più
il ’68, l’accoglienza è diversa rispetto al passato, ma Luciano Lama ha fegato,
nonostante la situazione, non si tira indietro e svelto sale sul palco.
“Il Corriere della Sera ha scritto che
saremo venuti qui con i carri armati, si è sbagliato, noi siamo qui…”. Lama,
orgoglioso della scelta, parlerà poco più di venti minuti, ma nessuno lo
ascolta. Il palco è l’arena, il pubblico è protagonista, Lama diventa una
comparsa quasi spettatore, ai suoi piedi, c’è lo spettacolo. Gli Indiani fanno
piovere palloncini pieni di vernice sul pubblico, la furia non è più del solo
servizio d’ordine, ma dei tanti che erano lì per ascoltare il comizio. Volano
fra le due parti pugni, schiaffi, calci, perfino scontri fisici uno contro uno.
La scala con il fantoccio di Lama si muove, viene utilizzata come ariete per
sfondare il servizio d’ordine ma uno dei capi del servizio d’ordine del PCI usa
un estintore contro i collettivi. Si alza una nube bianca, l’aria è fitta e non
si vede più nulla, si sentono le grida e le botte: la rissa selvaggia continua.
Ore 10:30. Lama
ha concluso il suo discorso, qualcuno sbrigativo sale sul palco per dire che la
manifestazione è sciolta, che non si accettano provocazioni. Qualcuno grida
basta, che fra i compagni non ci si picchia, intanto, una carica violentissima
ha spazzato via il servizio d’ordine, si è diretta contro il camioncino del
sindacato e l’ha capovolto e distrutto. Il camioncino era un Dodge rosso
americano che dalla fine della guerra era presente in tutte le feste di
liberazione, Feste dell’Unità, ogni primo maggio a San Giovanni. Quel
camioncino era il simbolo di 25 anni di lotte del partito, del sindacato e un
tempo del movimento. La rabbia cresce e gli studenti militanti del PCI prendono
le spranghe di ferro, le mazze di legno, affrontano il movimento, lo scontro è
violento, le armi sono anche le più improbabili: chiavi inglesi, pezzi di asfalto,
bottiglie spaccate. Una catastrofe. Non doveva andare così. Troppe teste rotte.
Sono ore di follia. La Facoltà di
Lettere e Filosofia straripa di infortunati, i militanti del PCI sono
trasportati al Policlinico. In giornata la cittadella universitaria viene
sgomberata e lo scontro prosegue in serata nelle strade di San Lorenzo con
alcuni focolai di guerriglia.
Si potrebbero ipotizzare diverse cause –
comunque semplificative e non esaurienti – in merito alla frattura fra CGIL-PCI
e i movimenti: dalla riduzione del peso politico acquisito a partire
dall’autunno caldo dal sindacato, la rinuncia al conflitto e l’adesione a uno
scambio politico oppure il compromesso storico. D’altra parte la frattura non
va rinchiusa nelle singole scelte partitiche-sindacali ma ricondotta anche a
quei mutamenti rigeneranti del movimento, ben diverso dal ’68, che ha posto una
serie di contraddizioni interne alla sinistra di massa e a quella
extraparlamentare.