Nato il 27 giugno del 1871, Acciarito è un fabbro immigrato a Roma, costretto a chiudere bottega per mancanza di lavoro. Povero in canna frequenta ambienti socialisti e anarchici, senza per altro essere anarchico o riconosciuto come tale. Sebbene non fosse iscritto a nessun gruppo politico, Acciarito iniziò a divenire noto per le sue idee radicali, derivanti da un manifesto sentimento ostile sviluppato nei confronti delle classi dominanti, idee delle quali non faceva mistero e che anzi proclamava volentieri e a gran voce. Il 22 aprile 1897 tenta di pugnalare Umberto I. Il re, dopo il pranzo di gala in occasione dell’anniversario del proprio matrimonio, decide di presenziare al derby, dove ha messo in palio per il cavallo vincente 24.000 lire, una somma enorme per l’epoca. Giunta la carrozza a S. Giovanni, fra il vicolo della Morana e il cascinale dei Valloni, Pietro Acciarito salta sul predellino e tenta di sferrare un colpo con un pugnale di fabbricazione artigianale forgiato da lui stesso. Il Re, quando vede la mano alzata di Acciarito, si alza deviando il colpo che si conficca sulla spalliera del sedile. Pietro perde l’equilibrio, viene quasi investito dalla carrozza e immediatamente catturato. All’indomani del tentato regicidio il presidente del Senato suggerisce a Di Rudinì la tesi di un immaginario complotto nonostante l’artigiano affermi nei primi interrogatori di non aver avuto mandanti o istigatori, e rivela: “Io l’attentato che ho fatto, prima di tutto non c’è complotto e non sono stato spinto da nessuno, ma lo feci perché ero in miseria. Si buttano lì milioni in Africa e il popolo ha fame perché mancano lì lavori. È questa la questione: è la micragna”. L'attentato fallito fu impiegato come pretesto per arresti arbitrari di esponenti socialisti, anarchici e repubblicani.
Il 28 e 29 maggio 1897 si svolge il processo e nonostante non avesse ne ammazzato
o ferito nessuno, è condannato ai lavori forzati a vita e a 7 anni di isolamento.
Udita la sentenza esclama: “Oggi a me, domani al governo borghese. Viva l’anarchia!
Viva la rivoluzione sociale!”. Uno dei tragici strascichi della tesi del complotto
è l’arresto a Roma del falegname Romeo Frezzi che, portato in carcere a S. Michele,
muore per le violenze subite nell’interrogatorio. La polizia cerca invano di far
passare il caso come suicidio, ma è smascherata dall’Avanti con gran clamore e risonanza
in tutto il paese.
Nonostante che tutti i tentativi da parte della polizia e dello Stato
di dimostrare la presenza di un complotto fallirono, Acciarito trascorse il resto
della sua vita in carcere. Morì nel carcere di Montelupo Fiorentino il 4 dicembre
1947.
Alla sua morte Acciarito fu sottoposto ad autopsia da parte degli stessi
eugenetisti, della scuola lombrosiana che avevano esaminato il corpo di Passannante,
i quali conclusero che la forma del cranio dell'ex fabbro rivelava la sua "predisposizione
all'assassinio".