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Si dice che
quando un disequilibrio economico o politico non può diventare guerra diventa
crisi. La Palestina è quel territorio dove lo Stato d'Israele ha costruito una
esteriorità interna su cui scaricare ogni crisi, in cui ogni crisi diventa
guerra.
E quindi a più
di un anno dall'inizio della crisi pandemica, con l'evidente gestione etnica
della stessa, ecco che riparte l'aggressione al popolo palestinese, questa
volta tra le strade di Gerusalemme per poi diffordersi a tutti i territori
occupati fino a minacciare l'intervento militare nella Striscia di Gaza che da
giorni fa nuovamente i conti con le decine di morti quotidiani per i
bombardamenti. Torna subito alla mente l'operazione Piombo Fuso che nel
dicembre 2008 si inseriva nel quadro di un'altra crisi, quella finanziaria
globale.
La crisi poi è
anche quella del quadro istituzionale, tanto israeliano quanto palestinese. In
Israele si sono celebrate da poco le quarte elezioni in due anni che non sono
comunque state in grado di consegnare un governo al paese. Sembrava che per la
prima volta da più di un decennio ci potesse essere un cambio di leadership,
con il premier Benjamin Netanyahu appesantito da tre accuse di corruzione, e
una complessa frammentazione del panorama politico. Ma gli scontri delle ultime
settimane, con l'evidente intento di solleticare la pancia dell'ultradestra e
dei movimenti dei coloni, hanno sortito il loro effetto. Oggi il leader della
formazione Yamina, Naftali Bennet, ha sostanzialmente annunciato che sosterrà
Netanyahu nella formazione di un nuovo governo.
Allo stesso
tempo lo scenario politico palestinese sta vivendo una nuova trasformazione. Se
le accuse di corruzione e complicità con gli israeliani rivolte ad Al Fatah
hanno visto un sotanziale deteriorarsi della credibilità politica di Abu Mazen
e della sua consorteria politica, allo stesso tempo anche Hamas, per quanto
salda al controllo della Striscia di Gaza, sembrava stare vivendo negli ultimi
anni una crisi di leggittimità. Nuove opzioni iniziavano a palesarsi come quella
la lista Hurriyah (Libertà), guidata da Barghouti (uno dei leader della prima e
della seconda Intifada tuttora in carcere). Tanto che alla fine le elezioni
previste per il 22 maggio, le prime in 15 anni, a cui tra l'altro si erano
iscritti oltre il 90% dei palestinesi, sono state infine rinviate.
La novità sta
anche nelle dinamiche dal basso che si sono date: le proteste contro lo sfratto
delle famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah, le notti di scontri sulla Spianata
delle Moschee e il diffondersi di mobilitazioni in tutte le località della
Palestina con una forte presenza araba hanno dimostrato una vivacità e
un'indisponibilità dei settori popolari che non si vedeva da tempo e che alcuni
avevano già archiviato come processi ormai storicizzati concentrandosi
unicamente sul conflitto nei pressi della Striscia di Gaza.
In questa guerra
come politica, in questo sporco gioco poi ad essere ulteriormente vomitevoli
sono le reazioni internazionali con la politica italiana che si allinea
bipartisan sotto la bandiera d'Israele sporca di sangue palestinese e la
leadership europea che assiste imbarazzata condannando le violenze "da
entrambe le parti", ponendosi persino alla destra di Biden che reputa
"eccessiva" la reazione israeliana.
È necessario
come non mai dunque prendere posizione in questo conflitto, leggerlo alla luce
dell'attualità e delle tendenze che mostra, ed essere consapevoli che la lotta
palestinese per la vita e la dignità è anche la nostra lotta, la lotta di
chiunque si oppone a questo modello di sviluppo e di organizzazione sociale in
piena decadenza.