Il pensiero anarchico – in senso proprio, non metaforico – cioè il pensiero
di quei «folli dell’anarchia», di quei «fanatici della libertà» che hanno turbato
sonni ortodossi e ispirato sogni ribelli, quel pensiero anarchico che oggi viene
riscoperto come «libertarismo debole» (nobilitazione di un banale liberalismo o
riciclaggio di un sinistrese post-comunista) è pensiero ben più complesso e multiforme
di quanto una critica quasi sempre superficiale e una semplicistica divulgazione
farebbero credere. Una complessità che certo nasce dalla natura irriducibilmente
non dogmatica di quel pensiero, ma anche dalla complessa varietà storica, geografica
e sociale del movimento anarchico che è nato da quel pensiero e che quel pensiero
ha, a sua volta, prodotto. L’anarchismo, infatti, è stato un grande movimento a
valenza internazionale e ad ampio spettro sociale; un fenomeno storico di rilevanti
proporzioni che necessita ancora di una riflessione storiografica adeguata. Dalla
Russia agli Stati Uniti, dall’Italia al Giappone, dalla Spagna alla Svezia, dalla
Francia alla Cina, dalla Corea all’Argentina, dalla Germania al Brasile il movimento
anarchico si è espresso in organizzazioni culturali, sindacali, politiche, educative,
economiche che hanno coinvolto o influenzato milioni di persone. È stato attivamente
presente in alcuni momenti decisivi della storia europea e mondiale: nella Prima
Internazionale, nella Comune di Parigi, nella Rivoluzione russa, nel movimento consiliare
degli anni Venti, nel sindacalismo latino-americano, nella Rivoluzione spagnola…
L’anarchismo è il risultato del plurimo incrocio tra l’onda lunga della secolarizzazione
illuministica, con il suo inesorabile e progressivo «disincanto del mondo», e i
due effetti storici che ne hanno avallato e scandito la progressione: la Rivoluzione
industriale e la Rivoluzione francese. Culmine culturale ineludibile di questo formidabile
intreccio, tutto segnato da una dimensione continuativamente rivoluzionaria, nel
significato più esteso del termine, l’anarchismo è dunque – e non potrebbe essere
diversamente – l’estremo punto di tale processo. La negazione trasversale di ogni
autorità divina e umana, la critica del principio di autorità a ogni livello delle
sue determinazioni storiche date e a ogni livello delle sue determinazioni storiche
possibili, la critica cioè dell’esistente e di ogni futuro informato dagli stessi
principi, pongono l’anarchismo sulla labile frontiera che divide i lembi estremi
dell’esercizio rivoluzionario della critica in tutte le sue forme dalla più problematica
e ineffabile terra di nessuno del nichilismo.
L’anarchismo è invece la soluzione diversa dalla democrazia perché va
molto più in là del socialismo, in quanto ritiene che la rivoluzione non sia tanto
nelle cose (e se lo è, questo è un aspetto secondario) quanto nell’ordine della
libertà come inizio di una nuova storia, come fondazione irreversibile del farsi
della libertà come libertà assoluta. La rivoluzione è l’estrinsecazione di questo
futuro e di questa nuova storia, la manifestazione visibile e reale della capacità
umana di far coincidere, in un medesimo incrocio spazio-temporale, il senso e la
potenzialità dell’azione emancipativa dell’uomo. La rivoluzione anarchica non conosce
la distinzione tra tempo storico e tempo rivoluzionario: essa intende inverare il
primo nel secondo, interrompendo chiliasticamente la logica del potere con l’eliminazione
immediata e totale di ogni possibilità riproduttiva dell’autorità sotto qualsiasi
forma.