Tra i primi provvedimenti del Comitato Centrale, all'indomani del 18 marzo, vi era stato quello di garantire libertà
di stampa per tutti, anche se in maggio, nelle ultime settimane della sua
esistenza, la Comune soppresse tutti i giornali conservatori e reazionari, che
del resto continuarono ad uscire a Versailles, dove trasferirono le redazioni.
Si stabilì che anche i non-francesi avevano pieno
diritto di cittadinanza nella Comune, dal momento che in una repubblica
universale «tutte le città hanno il
diritto di considerare propri cittadini gli stranieri che la servono».
Avvenne così che due polacchi, Dombrowski e Wroblewski, furono tra i comandanti militari e
l'ungherese Léo Frankel uno dei commissari della Comune.
L'esercito permanente venne abolito con decreto del 29 marzo: nella tradizione di tutti gli Stati esso
era utilizzato non solo per aggredire i popoli stranieri, ma per opprimere gli
stessi concittadini. Pertanto, ad esso subentrò la Guardia Nazionale, che rappresentò tutto il popolo
armato. La polizia venne adibita all'esclusivo esercizio della repressione dei
reati comuni, togliendole ogni funzione politica.
Per quanto riguarda la burocrazia, nello stesso decreto
venne adottato il provvedimento di eleggere i funzionari amministrativi, che in
tal modo divennero revocabili in qualsiasi momento. Il loro stipendio massimo
era fissato a 6.000 franchi annui: lo stipendio dei membri del Consiglio, pari a 5.475 franchi (15
franchi al giorno) era così inferiore a quello di un dirigente della pubblica
amministrazione.
La Comune, come scritto in altro capitolo, commise il
grave errore di non nazionalizzare la Banca di Francia, la quale possedeva, in
marzo, più di due miliardi e mezzo di franchi tra contanti e titoli. Avendo a
disposizione, per le spese correnti, poco più di quattro milioni e mezzo di
franchi, la Comune, nei circa due mesi della sua esistenza, richiese alla Banca
prestiti scaglionati per un importo complessivo di circa venti milioni, una
somma evidentemente minima rispetto alle disponibilità della Banca di Francia.
Quella di concedere sovvenzioni ad intermittenza fu una
politica suggerita ai governatori della Banca direttamente da Thiers, il quale temeva che in caso di resistenze
essa fosse nazionalizzata. Versailles, nello stesso tempo, ottenne sovvenzioni
per più di 257 milioni, una somma superiore di più di dieci volte a quella
percepita da Parigi. La responsabilità di non aver controllato direttamente il
maggior organismo finanziario della Francia va assegnata ai due commissari Charles Beslay e François Jourde, ma più in generale al «timore
sacro» provato da gran parte degli uomini della Comune di fronte
all'istituzione finanziaria.
Con risorse modeste, la Comune doveva provvedere a
mantenere in funzione i servizi pubblici, dai quali erano scomparsi i tre
quarti degli impiegati; gli ospedali ad esempio, furono svuotati delle attrezzature
dal governo di Versailles e il personale, composto in gran parte
da suore, aveva scarsa volontà di collaborare. Anche le poste erano da
rimettere a posto. Un altro problema era rappresentato dal tentativo di Thiers di affamare la città, impedendo che i treni
merci raggiungessero Parigi.
La Comune non ebbe il tempo materiale per organizzare
un coerente programma di riforme sociali e dovette affrontare solo i problemi
più urgenti del momento.
Il problema degli alloggi era certamente uno dei più
importanti per una città che aveva subito un lungo assedio. Il 30 marzo 1871 si decretò che per tre trimestri,
dal 1° ottobre 1870 al 30 giugno del 1871, gli affitti non erano dovuti (si
trattò dunque di un'esenzione e non di un rinvio dei pagamenti degli affitti)
in quanto «è giusto che anche la
proprietà sopporti la sua parte di sacrifici». Il 25 aprile si requisirono gli alloggi sfitti per
assegnarli alle famiglie le cui abitazioni erano state danneggiate dai
bombardamenti delle truppe di Thiers.
Il problema del pagamento delle cambiali in scadenza,
problema particolarmente sentito da artigiani e piccoli commercianti messi in
difficoltà dal crollo dei consumi verificatosi durante l'assedio, fu preso in
considerazione dal 19 marzo con l'emanazione di un decreto di rinvio
delle scadenze, e il 18 aprile fu stabilito che i pagamenti dovevano
essere effettuati dal 15 luglio, in tre anni e senza interessi.
Quello del pignoramento degli oggetti depositati al
Monte di Pietà era un altro problema che assillava gran parte della popolazione
che, vivendo in generale povertà, era far uso impegnare le poche cose di valore
nei momenti di particolare difficoltà. Il direttore del Monte di Pietà aveva
annunciato, il 20 marzo, la vendita all'asta, a partire dal 1° aprile, degli oggetti pignorati. Sulla
questione ci furono delle divisioni tra coloro che volevano abolire
immediatamente il Monte di Pietà «sia per
l'immoralità del principio che li regge, sia per l'assoluta inefficacia del
loro funzionamento economico». Dopo un decreto di sospensione delle aste,
emanato il 29 marzo, fu deciso il 7 maggio di concedere la restituzione gratuita
degli oggetti impegnati di prima necessità di un valore pari o inferiore ai 20
franchi: la Comune si assumeva l'onere di rimborsare il Monte, per una spesa
che superava i 300.000 franchi.
Per affrontare il problema della disoccupazione,
aumentata a seguito della fuga da Parigi dei proprietari di aziende grandi e
piccole, il 16 aprile la commissione lavoro istituì una
commissione d'inchiesta, a cura delle camere sindacali, che fece un elenco
delle officine e laboratori inattivi, inventariò i loro beni e provvide a
costituire cooperative di lavoratori che ne presero possesso. Un tribunale arbitrale
avrebbe poi commisurato l'entità degli indennizzi spettanti ai proprietari.
Il 27 aprile un decreto stabilì la soppressione delle
multe sui salari operai (un'abitudine del padronato del Secondo Impero) e impose la restituzione di quelle
inflitte dopo il 18 marzo.